Creare una società per mettere a frutto i 32 miliardi sottratti alle mafie – studio dell’Osservatorio permanente sulla sicurezza – Eurispes
In questo momento dove pericolosi capi mafia stanno uscendo dal carcere, RN propone questo studio molto interessante che alcuni padri della lotta alla mafia avevano suggerito
L’Osservatorio sulla Sicurezza, partendo da una proposta avanzata nei mesi scorsi dal presidente dell’Istituto, Gian Maria Fara, ha elaborato il seguente documento offrendone i contenuti ai decisori politici e ai diversi attori istituzionali.
Contrastare la criminalità organizzata sul piano patrimoniale è una scelta strategica di grande intelligenza: non a caso l’opzione metodologica è figlia del pensiero di Giovanni Falcone.
L’esperienza del nostro Paese mostra con piena evidenza che i sodalizi criminali moderni meglio strutturati sono in grado di sopravvivere anche a massicce operazioni repressive incentrate sui singoli associati all’organizzazione. In altri termini, l’applicazione di strategie di prevenzione soggettiva e di misure coercitive contro i singoli individui può sempre lasciare un margine più o meno ampio di sopravvivenza all’organizzazione criminale, se non viene sostenuta dall’individuazione e sequestro dei beni provento delle attività illecite: questi beni, infatti, sono utilizzati dalle organizzazioni criminali per garantire un ricambio generazionale del capitale umano.
Il Paradigma a base del metodo di contrasto prescelto è il seguente:
– Il crimine organizzato è orientato al profitto;
– Il capitale illegale è costantemente immesso in mercati leciti e in questo modo:
- si incrementano i margini di profitto;
- si favorisce la copertura delle attività illecite;
- si facilita la graduale infiltrazione delle organizzazioni criminali nella società.
La repressione dei capitali illeciti è, dunque, il modo migliore:
– per ridurre sensibilmente la costante rigenerazione delle associazioni criminali;
– per minare le fondamenta della loro influenza sulla società e del loro controllo sul territorio.
L’apice concettuale del modello italiano di confisca è stato delineato dalla Corte costituzionale (Sentenza n.34 del 2012), la cui visione può essere sintetizzata come segue: il benessere generato dai beni illeciti non deve essere perso dalla comunità. Conseguentemente, tutti gli sforzi devono essere indirizzati ad includere le proprietà confiscate all’interno del circuito economico legale. In questo modo, la confisca e la destinazione ai fini sociali dei beni confiscati integrano la manifestazione della disapprovazione sociale verso una data condotta.
La validità dell’opzione è confermata dal fatto che, sul piano internazionale, si va affermando la consapevolezza dell’importanza del recupero dei beni nella lotta al crimine organizzato e alla corruzione. Si può discorrere, a pieno titolo, di modello italiano di asset recovery.
Le condizioni logiche ed economiche per la validità del sistema
La direttrice di politica criminale sopra delineata, per dare i frutti sperati, necessita concettualmente del raggiungimento di alcune condizioni: è necessario che i sequestri colpiscano una significativa parte del patrimonio della criminalità organizzata; è altrettanto ineludibile il principio secondo cui dalla stragrande maggioranza dei sequestri devono scaturire provvedimenti di confisca; i beni confiscati devono essere destinati, all’esito di procedure snelle e virtuose, ai fini sociali; occorre evitare che la destinazione ai fini sociali di beni confiscati abbia scarsi esiti o dia luogo a situazioni di diseconomie sul territorio, potendosi altrimenti generare un fenomeno di sfiducia nello strumento e, in seconda battuta, nelle stesse Istituzioni.
Intorno a queste quattro distinte criticità ruota tutta la storia della legislazione italiana più recente in materia di confisca, gestione e destinazione a fini sociali dei beni confiscati.
Le norme adottate per assicurare l’implemetazione del modello sono state più volte riviste ed aggiornate secondo il criterio del work in progress: gli aggiustamenti successivi hanno condotto al quadro legislativo vigente costruito intorno alle competenze dell’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati (Anbsc).
Proprio in questi giorni si compiono i primi dieci anni di vita dell’Anbsc che ha costituito indubbiamente un momento di grande avanzamento nell’architettura istituzionale ed amministrativa in questa materia.
L’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata è stata istituita con decreto legge 4 febbraio 2010, n.4, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 31 marzo 2010, n.50 (pubblicata in G.U. il 3 aprile 2010), oggi recepita dal decreto legislativo n.159 del 6 settembre 2011 (Codice Antimafia).
L’Agenzia è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico, dotata di autonomia organizzativa e contabile ed è posta sotto la vigilanza del Ministro dell’Interno.
La struttura ha sede principale a Roma e sedi secondarie a Reggio Calabria, Palermo, Milano e Napoli.
La creazione dell’Agenzia aveva come principale elemento innovativo l’introduzione di un’amministrazione dinamica dei patrimoni confiscati che snellisse e velocizzasse la fase di destinazione degli stessi, superando le carenze e le inefficienze della precedente metodologia di gestione.
10 anni della Anbsc, un consuntivo
L’esperienza pratico-applicativa ha evidenziato aspetti di particolare complessità che ingenerano difficoltà nell’azione giudiziaria ed amministrativa in questo settore.
Si pensi, a mero titolo di esempio, alle aziende interessate dal sequestro giudiziario e dalla confisca che, spesso, conservano spiccata vitalità soltanto fino a quando sono nella disponibilità dei mafiosi – i quali garantiscono alle stesse accesso al credito, commesse, clientela.
Tale vitalità, al contrario, in mancanza di una gestione improntata a canoni di imprenditorialità, rischia di scomparire del tutto.
Il salvataggio delle imprese a conduzione mafiosa – industriali, edili e, in particolare, agricole – è quindi obiettivo decisivo se si vuole colpire, sia sul piano simbolico sia su quello concreto, un potere mafioso che appare altrimenti pervicace e pertinace nonostante gli interventi repressivi delle Istituzioni.
L’attività imprenditoriale va salvaguardata in ogni caso per scongiurare il pericolo della scomparsa dell’azienda e della sua funzione sociale, della perdita di posti di lavoro in realtà geografiche già storicamente svantaggiate.
Ulteriori aspetti di criticità del sistema attengono ad un paradosso numerico-quantitativo: ci si chiede cioè se, a fronte degli sforzi enormi compiuti sotto il profilo della prevenzione e della repressione, con l’accumulazione di un imponente patrimonio sottratto alle mafie ed alla criminalità, quelle risorse siano utilizzate nel modo migliore, secondo il fine ultimo disegnato dall’intero sistema.
L’Agenzia ha costituito un punto di grande avanzamento nell’evoluzione del sistema ed è presa a modello a livello internazionale: è forse tempo, nondimeno, per ripensare il sistema nel suo complesso.
Prospettive di riforma
L’ammontare in valore economico dei beni sottratti al crimine costituisce un vero e proprio “tesoro”.
Il valore complessivo dei beni sequestrati e confiscati alle mafie ammonta a 32 miliardi di euro, al 31 dicembre 2019, dei quali 20 miliardi è l’entità dei sequestri e delle confische effettuati nel quinquennio 2015-2019.
L’importo rappresenta l’1.8 % del Prodotto interno lordo prima della crisi indotta dalla pandemia.
I beni mobili ammontano ad un valore di 4 miliardi 336mila euro, dei quali 2 miliardi ed 85 milioni di euro sono cash, liquidità.
La gestione patrimoniale di questi beni, tuttavia, ha prodotto nel complesso sinora solo 57 milioni 884mila euro.
A fronte di simili numeri, è lecito porsi una domanda da economisti: una simile ricchezza può essere effettivamente gestita, secondo criteri di ottimizzazione, attraverso decisioni e determinazioni adottate di volta in volta, aventi ad oggetto un bene o un’azienda singolarmente considerate?
Non è forse giunto il momento di interrogarsi sulla possibiltà di una scelta politica di gestione finalistica di un simile patrimonio considerato nel suo complesso, che tenda a contribuire alla stessa politica economica del Paese?
Tempo fa, il presidente Fara propose di rivedere le politiche di gestione ed utilizzazione di questo “tesoro” sostenendo che: «l’enorme patrimonio accumulato con le confische dei beni della criminalità organizzata e delle mafie deve essere messo a frutto e gestito con criteri manageriali, come si farebbe con un’azienda o un insieme di aziende, facenti capo ad un unico soggetto finanziario. Insomma, una vera e propria holding, organizzata e gestita in stretta collaborazione con l’Anbsc e con la vigilanza del Sistema giudiziario antimafia».
L’holding per la gestione dei beni confiscati, al contrario, avrebbe, grazie ai numeri prima citati, un capitale enorme, anzi sarebbe in assoluto il soggetto con la più alta concentrazione di capitale in Italia.
Si tratterebbe di un “Iri 2” con il “capitale” più alto del capitale sociale di Eni, Enel, Assicurazioni Generali, Intesa San Paolo, Poste Italiane e Leonardo messi insieme. Una Holding articolata per settori di competenza affidati a manager di comprovata esperienza (come, ad esempio: immobiliare, produzione agroalimentare, agricoltura, distribuzione, servizi e ambiente).
Certo, la valorizzazione di questo immenso patrimonio non sarebbe da subito disponibile per fronteggiare nell’immediato l’emergenza generata dall’epidemia da Coronavirus ma potrebbe rappresentare una delle risorse strategiche per uscire dalla crisi e rilanciare la nostra economia.
Una simile opzione strategica metterebbe d’accordo anche i due orientamenti di pensiero che si fronteggiano da anni sul tema della vendita dei beni confiscati, polarizzandosi tra chi preferisce monetizzare il valore dei beni sequestrati e confiscati con finalità meramente contabili e chi, invece, destina a fini sociali i beni sequestrati e confiscati anche allo scopo di fornire alla collettività un segnale di virtù civica.
Destinare il patrimonio confiscato a finalità sociali attraverso un’opzione metodologica più moderna e rispondente alle esigenze economiche del Paese, senza snaturare la finalità sottesa alla destinazione del bene alla società, rifletterebbe l’impostazione che intende valorizzare le potenzialità dell’istituto dell’asset recovery quale strumento di riscatto morale da una parte e l’avvertita necessità di un concreto sviluppo economico legato al riutilizzo dei beni confiscati.
Infine, le risorse generate da questa gestione imprenditoriale e manageriale dell’enorme capitale disponibile potrebbero essere utilizzate, nelle diverse forme possibili, nella lotta alle mafie stesse.
Il presidente dell’Osservatorio permanente Eurispes sulla Sicurezza Gen. Pasquale Preziosa
I vicepresidenti Giovanni Russo, Roberto De Vita